Sentenza n. 452 del 1990

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SENTENZA N.452

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 431 del codice di procedura penale, in relazione all'art. 449, quinto comma, dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 14 febbraio 1990 dal Tribunale di Vibo Valentia nel procedimento penale a carico di Cirianni Francesco, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 giugno 1990 il Giudice relatore Giovanni Conso.

Ritenuto in fatto

1.- Adito dal pubblico ministero con rito direttissimo ai sensi dell'art. 449, quinto comma, del codice di procedura penale per avere "l'imputato reso confessione avanti al G.I.P.", il Tribunale di Vibo Valentia, con ordinanza del 14 febbraio 1990, ha sollevato, in riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 431 dello stesso codice, "nella parte in cui non prevede che venga inserito nel fascicolo per il dibattimento il verbale d'interrogatorio contenente la confessione nell'ipotesi di giudizio direttissimo promosso alla stregua del 51 comma dell'art. 449 c.p.p.".

Premesso che il presupposto che aveva determinato il pubblico ministero a promuovere il giudizio direttissimo era del tutto ignoto al collegio e che il giudice del dibattimento deve essere in grado di accertare in limine litis la corretta instaurazione del rito (v. art. 452, primo comma, del codice di procedura penale), rileva il giudice a quo che la mancata previsione nell'art. 431 dell'allegazione al fascicolo per il dibattimento del verbale contenente la confessione dell'imputato non consente al giudice del dibattimento, nei casi di giudizio direttissimo promosso a norma dell'art. 449, quinto comma, di accertare la presenza dei presupposti per l'instaurazione del rito.

Ne conseguirebbe la violazione dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione, perchè "quando la confessione fosse assunta dal P.M. come presupposto del giudizio direttissimo e il giudice fosse tenuto a consentirlo, si avrebbe un rito fondato, non su un accertamento diretto del giudice e sul suo convincimento, ma sull'assunto soltanto d'una delle parti del giudizio".

2.- L'ordinanza ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 20, prima serie speciale, del 16 maggio 1990.

3.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Secondo l'Avvocatura, il presupposto da cui muove l'ordinanza di rimessione risulterebbe erroneo, in quanto il giudice, pur in mancanza dell'allegazione del verbale d'interrogatorio al fascicolo per il dibattimento, sarebbe comunque posto in grado, "nonostante la mancanza di una previsione esplicita al riguardo", di verificare l'esistenza della confessione.

Trattandosi di fatto da cui "dipende l'applicazione di norme processuali", la confessione, quale presupposto del giudizio direttissimo, può divenire "oggetto di prova" a norma dell'art. 187. Senza contare che una confessione reiterata nel corso del dibattimento renderebbe del tutto inutile l'acquisizione del verbale relativo, mentre una confessione ritrattata potrebbe divenire oggetto di contestazione ex art. 503.

Ma, conclude, l'Avvocatura, pure se una tale acquisizione si rendesse necessaria, non per questo il verbale d'interrogatorio dovrebbe confluire ab origine nel fascicolo per il dibattimento. Il pubblico ministero, o anche la difesa, potrebbero esibirlo, in tutti quei casi nei quali sorga una questione sul presupposto della confessione, di cui occorra, appunto, fornire la prova.

Considerato in diritto

1.-Il Tribunale di Vibo Valentia-richiesto di procedere a giudizio direttissimo dal pubblico ministero, in base all'art. 449, quinto comma, del codice di procedura penale, per avere l'imputato <reso confessione> -dubita della legittimità costituzionale dell'art. 431 dello stesso codice, <nella parte in cui non prevede che venga inserito nel fascicolo per il dibattimento il verbale d'interrogatorio contenente la confessione nell'ipotesi di giudizio direttissimo> così promosso: e ciò perchè, non potendo il giudice, in mancanza di tale verbale, accertare direttamente <la sussistenza del presupposto della legittima instaurazione del giudizio direttissimo>, <si avrebbe un rito fondato sull'assunto soltanto di una delle parti del giudizio, con la conseguente soggezione ad essa del giudice, e ciò in contrasto con l'art. 101, comma secondo, della Costituzione>.

2. - Due le premesse dalle quali muove l'ordinanza di rimessione.

La prima fa leva sul convincimento che <la sussistenza dei presupposti di una corretta instaurazione del giudizio direttissimo, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 452, primo comma, del c.p.p.>-comma in forza del quale <Se il giudizio direttissimo risulta promosso fuori dei casi previsti dall'articolo 449, il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero> -<deve poter> essere accertata dal giudice del dibattimento in limine litis e, quindi, <sulla base degli atti a propria disposizione> in quel momento: gli atti, cioè, che figurano raccolti nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, espressamente richiamato, per il giudizio direttissimo, sia dall'art. 450, quarto comma, del codice sia dall'art. 138 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

L'altra premessa si impernia sulla considerazione che unicamente l'invocata declaratoria di illegittimità permetterebbe di inserire subito nel fascicolo per il dibattimento il verbale dell'interrogatorio attraverso cui la confessione è stata resa, il <solo> in grado di consentire l'accertamento del presupposto per l'instaurazione del giudizio direttissimo nell'ipotesi prevista dall'art. 449, quinto comma.

Ma nè la prima nè la seconda premessa può dirsi pacifica. Anzi, o per un verso o per l'altro, l'argomentare del giudice a quo risulta totalmente isolato nel contesto della dottrina e della giurisprudenza di merito già manifestatesi in argomento.

Ed invero, quanti condividono la tesi che rivendica assoluta priorità logica alla verifica della propria investitura da parte del giudice si discostano dall'ordinanza di rimessione perchè ritengono il presupposto rappresentato dalla confessione accertabile attraverso l'esame del verbale di interrogatorio: la possibilità di allegarlo al fascicolo per il dibattimento instaurato con rito direttissimo discenderebbe da un'interpretazione estensiva dell'art. 431, lettera a), 1à dove, tra i contenuti iniziali del fascicolo in questione, si trovano menzionati <gli atti relativi alla procedibilità dell'azione penale>, formula da intendersi non circoscritta agli atti concernenti la documentazione della condizione di procedibilità eventualmente necessaria, bensì comprensiva anche di quelli relativi alle <condizioni che giustificano la scelta> del rito direttissimo, formula espressamente usata dall'art. 449, sesto comma.

Quanti sono, invece, d'accordo con il giudice a quo nel negare che il verbale d'interrogatorio possa trovar posto fra gli atti del fascicolo per il dibattimento nel giudizio instaurato con rito direttissimo-e ciò in quanto, come sintetizza la stessa Avvocatura dello Stato nell'atto di intervento per la Presidenza del Consiglio dei ministri, l'allegazione di quel verbale <<altererebbe gravemente l'impostazione di fondo del nuovo codice, volta ad evitare accuratamente che gli atti compiuti nella fase delle indagini contenenti dichiarazioni possano influenzare il giudice del dibattimento ancor prima che questo si svolga, con pregiudizio della oralità e della immediatezza che deve informare detta fase processuale> - divergono dall'ordinanza di rimessione in ordine al <quando> dovrebbe intervenire l'accertamento del presupposto della confessione. A loro avviso, il primo comma dell'art. 452 (Se il giudizio direttissimo risulta promosso fuori dei casi previsti dall'articolo 449, il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero) non escluderebbe affatto che il giudice del dibattimento possa effettuare la verifica sulla corretta instaurazione del rito nel corso dell'istruzione dibattimentale, avvalendosi di tutta una serie di attività ivi estrinsecabili (reiterazione della confessione; lettura del verbale precedente se l'imputato rimane contumace o assente oppure rifiuta di sottoporsi all'esame; contestazione ad opera del pubblico ministero di quanto l'imputato dovesse affermare in senso contrario alle dichiarazioni rese in precedenza, con conseguente loro acquisizione nel fascicolo per il dibattimento). Tanto più che, qualora si accogliesse l'ulteriore tesi secondo cui l'adozione di un rito non consentito determinerebbe l'insorgere di una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178 lettera b e 179, il giudice sarebbe tenuto a restituire gli atti al pubblico ministero in qualunque momento tale nullità venisse accertata.

3. - La presenza di queste due altre soluzioni interpretative, forte ciascuna di non pochi sostenitori e di non superficiali argomenti, rende decisivo il rilievo che - di fronte ad esse, significativamente concordi nel subordinare l'adozione del rito direttissimo nell'ipotesi prevista dall'art. 449, quinto comma, ad un accertamento diretto del giudice, anzichè al semplice assunto di una delle parti posto dall'ordinanza di rimessione a base del lamentato riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione - l'interpretazione accolta dal giudice a quo si presenta come nettamente minoritaria e, quindi, tale da non giustificare allo stato una declaratoria di illegittimità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 431 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Vibo Valentia con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/09/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Giovanni CONSO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 12/10/90.